Fare da soli - Singola | Storie di scenari e orizzonti

Fare da soli

Sul ritorno all'indipendenza materiale e al lavoro manuale.

Alessandro Rosa

studia i rapporti tra l’uso della tecnologia e le sue ripercussioni in ambito sociale e scientifico, con un occhio di riguardo per l’area biomedica e tutto ciò che riguarda algoritmi, big data ed elaborazione del linguaggio naturale. Scrive su diverse riviste.

Dopo aver completato il suo dottorato di ricerca in fisica nucleare, invece di proseguire la carriera accademica, Marcin Jakubowski decise quasi all’improvviso di avviare un’attività agricola in proprio. Come racconta in un Ted Talk, dopo essere rimasto chiuso nelle aule accademiche a rimuginare su questioni puramente teoriche, poter creare qualcosa di concreto con le nuove mani permette di vedere il proprio rapporto con la natura e le cose in modo totalmente nuovo. Il drastico cambio di vita gli fece anche realizzare quanto fosse difficile produrre beni alimentare in proprio, in particolare per quanto riguarda l’acquisto e la manutenzione dei numerosi mezzi necessari a un qualsiasi campo agricolo. 

Da buon uomo di scienza, Jakubowski cominciò a progettare da zero tutta l’attrezzatura e i macchinari di cui aveva bisogno. Nel 2003 avviò il progetto Open Source Ecology, una vera e propria comunità che mira alla produzione in proprio e in locale di macchinari industriali. Il risultato finale dell’iniziativa è il Global Village Construction Set (GVCS), un kit che a oggi contiene ben 50 macchinari indispensabili per il sostentamento di una modesta popolazione umana (dai trattori per la coltivazione ai forni per cuocere pagnotte). Con un costo di poche decine di migliaia di dollari questo kit permette di far nascere una piccola società indipendente.

Il GVCS si basa su principi molto semplici ma peculiari. È anzitutto pensato per essere completamente open source, sulla falsariga di piattaforme ben più note nel mondo dell’informatica come Linux. Questo significa che chiunque può ottenere gli schemi di produzione e può apportare le modifiche che vuole sulla base delle proprie esigenze particolari o se crede che si possano ottenere miglioramenti di qualsiasi tipo. In secondo luogo, si fonda sui concetti di modularità e di interoperabilità: deve essere possibile riparare i macchinari con facilità, utilizzando gli stessi pezzi con cui sono stati costruiti, senza bisogno di reperire parti aggiuntive altrove. In questo senso il GVCS è il sogno degli amanti del Do It Yourself (DIY): mette a disposizione delle parti semplici con cui creare oggetti estremamente complessi, in un modo paragonabile a quando da piccoli giocavamo coi mattoncini Lego. In questo caso, però, il gioco non si fonda solo sulla fantasia e la voglia di sperimentare, ma è una vera e propria mossa politica e ideologica. Il DIY più che un hobby domenicale è forse l’unica strada verso un sistema produttivo ed economico differente.

 

 

Lo sviluppo della società dei consumi, perlomeno a partire dagli anni ‘70 fino a oggi, ha fondato il suo successo sulla delocalizzazione e la smaterializzazione del lavoro manuale. Delocalizzando la filiera produttiva in paesi del terzo mondo ha reso il lavoro stesso qualcosa di lontano e alieno agli utenti finali. Cosa c’è dentro uno smartphone? Come si costruisce qualcosa di semplice come un tavolo? Quanti di noi sanno ancora riparare un qualsiasi oggetto di uso quotidiano quando si rompe?  Nascondendo il processo produttivo il capitalismo ha completamente obnubilato la nostra conoscenza degli oggetti in quanto enti materiali, facendoci presto dimenticare cosa significa costruire qualcosa con le proprie mani e, di conseguenza, quale sia il vero valore delle cose. Un esempio ormai abusato ma comunque significativo per i tempi che corrono è l’e-commerce: non solo tutta la filiera di produzione dei beni che acquistiamo ci è totalmente nascosta ed è impossibile mapparla fino in fondo, ma anche il percorso attraverso cui il prodotto finisce tra le nostre mani è lontano dalla nostra vista, se si fa eccezione per una manciata di coordinate rese note dai centri di smistamento attraverso cui le merci passano.  

Il DIY può essere visto come una risposta a questo processo di oscuramento della produzione. Emblema di questa filosofia di vita sono gli appartenenti al movimento survivalista (o prepper, nel mondo anglosassone) o alla filosofia punk dell’inizio degli anni ‘70. Il filo rosso che accomuna questi movimenti è proprio il ritorno alla produzione in proprio, all’indipendenza non solo economica ma anche materiale che è sempre stata tipica dell’uomo. Basta andare a sfogliare i libri di preistoria delle scuole elementari per ricordarsi che uno dei tratti salienti della nostra specie, fin dagli albori, è stata la capacità manuale, resa possibile da quel bellissimo sistema meccanico che è il pollice opponibile. L’etica del DIY, dunque, rifiuta in modo radicale la dipendenza materiale dagli attori economici fondanti la nostra società civile per creare un mondo artigianale in senso stretto. Le case dei prepper non sono poi così diverse da quelle dei nostri nonni: barattoloni in vetro per le conserve, attrezzi di ogni tipo per coltivare l’orto, forni a legna per preparare pane e focacce, ed eventualmente anche animali da latte con cui produrre formaggi fatti in casa. 

Limitare il DIY solo alla produzione agricola e artigianale tuttavia è limitante. Come ben sappiamo, il sistema dei consumi non verte soltanto sui beni di prima necessità, bensì investe qualsiasi parte della nostra vita quotidiana. Coltivare pomodori nel proprio orticello può sì regalare grandi soddisfazioni ma difficilmente permette di raggiungere una vera e propria indipendenza dai consumi. Allo stato attuale dipendiamo da una lunghissima filiera produttiva per qualsiasi oggetto che utilizziamo, da strumenti come gli smartphone che teniamo in mano a oggetti molto più rudimentali come un divano. Nonostante le differenze significative in termini di complessità, entrambi sono praticamente impossibili da reperire senza entrare in contatto con un attore industriale di grandi dimensioni, sia a livello distributivo che a livello produttivo. Come in tutti i casi di dipendenze ce ne rendiamo veramente conto solo quando l’oggetto ci manca, o meglio: quando si rompe. 

Senza tirare in ballo l’ormai noto problema dell’obsolescenza programmata (che però è fondamentale tenere a mente), quando un qualsiasi strumento casalingo si rompe è diventato praticamente impossibile ripararlo. I motivi non sono solo tecnici (ovvero che non sappiamo dove mettere le mani) ma anche strutturali: ottenere i pezzi di ricambio è spesso difficile, se non praticamente impossibile, e nel complesso ha un costo significativo di tempo (che non abbiamo) e di denaro (che se pure avessimo preferiremmo investire altrove). Quindi se da una parte tutto quello che ci circonda si comporta come una scatola nera, allo stesso tempo è tutto così (almeno all’apparenza) conveniente che non ce ne preoccupiamo. 

Più di qualcuno ha visto nell’emergere delle stampanti 3D il modo migliore (se non l’unico) per uscire da questo circolo vizioso. Quella della stampante 3D è una storia piuttosto travagliata: partita sotto l’egida dell’open source, è stata anch’essa inglobata dal mercato globale e divenuta un oggetto più da sfoggiare che per sostituire i mezzi di produzione. Eppure, è senza dubbio una tecnologia dall’elevato potenziale inespresso, potenziale che, come ricordano Nick Srnicek e Alex Williams deve essere compreso e incanalato nella giusta direzione. Avere a disposizione uno strumento produttivo personale, capace di ricreare potenzialmente qualsiasi tipo di oggetto, permette di annullare le distanze tra produttore e consumatore e portare a una società a costo zero, dove i beni vengono creati in loco e solo su richiesta, annullando o quasi la necessità di un sistema logicistico per molti beni di consumo. 

È sicuramente apprezzabile che il tema della riparazione stia interessando anche istituzioni come la stessa Unione Europea, ma la discussione attuale si concentra più sui diritti del consumatore che sull’avvio di una diversa etica del consumo. Adam Greenfield inserisce le stampanti 3D all’interno della sua lista di tecnologie dette radicali, cioè quegli strumenti che hanno la possibilità di cambiare drasticamente la società in cui viviamo, come sono stati il personal computer o lo smartphone a loro tempo. Stando all’autore, questi strumenti aprono la strada a uno scenario in cui «è forse possibile ripristinare nelle nostre vite qualcosa di simile a un’etica della riparazione, quell’etica che un tempo accomunava ogni cultura umana, prima che le condizioni materiali della vita quotidiana fossero fondate sulla produzione di massa, sull’usa e getta e su un’economia del consumo». 

Per questa ragione è possibile pensare alle stampa 3D come una vera e propria riappropriazione di quei mezzi di produzione tipicamente posseduti da una nicchia, avviando un’economia davvero circolare in cui le merci vengono prodotte in loco, solo su richiesta e riparate allo stesso modo aumentando di gran lunga il loro ciclo vitale. È difficile anche immaginare quali ripercussioni avrebbe un sistema di questo tipo sulla nostra vita quotidiana. Si tratterebbe non solo di stravolgere tutto il sistema produttivo e quello della distribuzione, ripensando da capo la logistica (vero feticcio dell’epoca contemporanea), ma anche i rapporti di potere. Senza parlare ovviamente della riduzione sull’impatto ecologico che una strategia di questo tipo avrebbe. I più utopici arriverebbero a definirlo un vero e proprio “comunismo automatizzato di lusso” usando le parole di Aaron Bastani, ovvero una società post-lavoro, post-scarsità, dove i confini tra tempo libero e produzione si liquefanno per dare pieno sfogo alla propria autorealizzazione come individui.

Allo stesso tempo la stampa 3D ha dei notevoli problemi tecnici che sembrano difficili da superare. In primo luogo, difficilmente sarà possibile creare qualsiasi tipo di oggetto; certi materiali sono difficilmente sostituibili con della semplice plastica modellabile. Questo include una buona parte dei dispositivi elettronici che usiamo quotidianamente e che per essere costrutti necessitano di metalli talmente difficili da reperire che non a caso vengono chiamati terre rare

Ma anche la diffusione di questi oggetti non è altrettanto facile: basti vedere la parabola che ha avuto la RepRap, una stampante 3D nata con lo scopo di replicare se stessa. Stando alle parole del suo creatore, la RepRap avrebbe potuto diffondersi in maniera esponenziale, semplicemente perché il costo dei materiali di produzioni si sarebbe progressivamente abbassato e ogni singola macchina avrebbe potuto creare una sua replica. Il problema è che, se da una parte i costi si sono effettivamente abbassati, quasi nessuno ha effettivamente sentito la necessità di produrre ulteriori copie perché avrebbe avuto un costo comunque maggiore della sua produzione su scala massiva. 

L’idea di una società post-scarsità vive al confine tra l’utopia e il mito, un po’ come il comunismo automatizzato di lusso. Probabilmente non saranno le stampanti 3D a porre fine ai problemi di scarsità nel mondo, così come è improbabile che da un giorno all’altro l’intera filiera produttiva venga automatizzata e ci sia consentito quell’ozio perenne che la sinistra più radicale pretende con gran voce. Ciò che si profila all’orizzonte è piuttosto una nuova dialettica del potere che può ridimensionare l’asimmetria tra chi detiene i mezzi di produzione e chi si ritrova incastrato tra gli ingranaggi di un sistema dei consumi ipertrofico. Di nuovo, si tratta di scegliere in quale direzione incanalare le energie: se cercare di mettere una toppa a un sistema in procinto del collasso o ripensarlo da capo. 

 

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USA - 2021
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Alessandro Rosa

studia i rapporti tra l’uso della tecnologia e le sue ripercussioni in ambito sociale e scientifico, con un occhio di riguardo per l’area biomedica e tutto ciò che riguarda algoritmi, big data ed elaborazione del linguaggio naturale. Scrive su diverse riviste.

Pubblicato:
03-09-2021
Ultima modifica:
03-09-2021
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